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Ecclesiam suam diligere
Mons. Gualtiero Sigismondi
Il motto Ecclesiam Suam diligere è di per sé un’icona, agostiniana e insieme montiniana, che trova la sua traduzione visiva nella simbologia ecclesiale e mariana dello stemma. Traendo spunto dalla letteratura paolina, lo stemma presenta la “casa di Dio”, la Chiesa, fondata sulla roccia della tradizione apostolica e avendo Cristo come “pietra angolare” (Ef 2,20), si configura come “colonna e sostegno della verità”, sempre soggetta alla Parola. (DV 10).
La banda, attraversando la colonna, tocca tangenzialmente il Libro della Parola, che “avvolge e custodisce il ministero del vescovo” (Pastores Gregis, 28); le tre stelle sono il simbolo della Madre di Dio e della Chiesa. La banda sfiora la Scrittura come il lembo di un manto, per significare che Maria vive della Parola, serba nel suo cuore le parole che le vengono da Dio e, congiungendole come in un mosaico, impara a comprenderle nello spazio del suo Fiat, che è l’antifona del Magnificat.
Lo stemma ribadisce anche nel cromatismo il suo messaggio. Seguendo l’iconografia classica, la Madonna delle Grazie effigiata nella Cattedrale di San Lorenzo in Perugia è vestita di rosso e ammantata di azzurro, a raffigurare l’umanità adombrata dalla divinità. L’argento della colonna simboleggia la luce riflessa: la Chiesa, come la luna, brilla della luce di Cristo, “sole di giustizia”, indicato dall’oro delle tre stelle. Le 8 punte richiamano la resurrezione di Cristo, alfa e omega, e per traslato l’assunzione di Maria, “mistica aurora della redenzione”.
Spiega Sigismondi: “La Chiesa non ha bisogno di ministri di culto a tempo determinato e responsabilità limitata, ma di ‘discepoli-missionari’ più appassionati e più affiatati, che non ricusano di praticare le opere di misericordia pastorale, di cui non esiste un elenco completo, ma una lista da compilare”. L’identità profonda del sacerdote è declinata con imperativi esigenti: “Accogliere, custodire e meditare la parola di Dio, senza temere di precedere l’aurora avanti al tabernacolo. Salire sull’altare e all’ambone senza disertare il confessionale, come ministri del perdono, ma anche come penitenti. Uscire dalla sagrestia verso il sagrato, raggiungendo i crocicchi delle strade, senza rimanere all’ombra del campanile. Visitare con assiduità e senza indugio le famiglie. Passare dai corsi ai percorsi di fede, opera pastorale strategica. Lasciare ai poveri il compito di dettare l’agenda, senza tirarsi indietro, poiché l’attenzione agli ultimi è il ‘termometro’ della carità pastorale. Promuovere la vita comune e fraterna, senza ridurla a una coincidenza di interessi egoistici e senza escludere a priori la comunione dei beni. Condire il tutto con l’olio prezioso della fraternità sacerdotale”.
Non manca lo “scrutinio” delle tentazioni nel servizio episcopale: “La dignità dell’episcopato, come non sopporta il culto della personalità, che fa del vescovo un funzionario, un avventizio, un migratore, un burocrate di passaggio, così non tollera il lamento permanente di chi, compulsivamente, controlla il polso e misura la febbre della comunità”.
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